venerdì 3 febbraio 2017

Che fare? L'identità va rispettata

Mi è arrivata una lettera in questi giorni molto interessante a cui ho risposto, pubblico qui di seguito una sintesi cambiando i riferimenti per motivi di privacy ma che credo possa interessare chi dovesse capitare su questo blog.
Buonasera Sig. DeAndreis,
ho trovato il suo sito con la seguente chiave di ricerca qualcuno che affronti l’obesità in modo diverso e questo dovrebbe già farle comprendere quale è la natura del consiglio che le chiedo.
Ho un amico abbondante che ora ha esagerato e deve dimagrire, il suo respiro è divenuto affannoso per colpa del peso. Non soffre di altre patologie. E' una persona lucida consapevole ed intelligente che ha incontrato numerosi nutrizionisti in passato, gente che ha sempre considerato la sua condizione come quella di un malato, mentre per lui il cibo è un piacere. Cucina molto bene, è un vero appassionato. Ma vive in un mondo pieno di pregiudizi, secondo cui chi è grasso vive fuori dalla realtà o non ha una sua volontà, tutto il contrario del mio amico, e spesso lo considera un minus habens.
La mia domanda è: esiste un centro, un nutrizionista, che abbia un approccio che parta dal rispetto dell'umanità dei propri pazienti? A.S.
Di seguito la mia risposta:

Salve,
vorrei tanto avere un indirizzario di persone utili a chi mi scrive, e mentre spero che ci siano medici (o dintorni) in grado di dare una mano, anche io ho purtroppo ripetutamente cozzato con il mondo che ben descrivi nella tua lettera.

La storia che mi hai raccontato è quella di tanti di noi, noi uomini ciccioni, e se è difficile per gli uomini puoi immaginare cosa sia per le donne, viviamo in un mondo che va al contrario su tutti i fronti e quindi anche su questo, incapaci come siamo di amare.

Se posso, azzardo qualche consiglio che ad alcuni può essere utile. 
Anzitutto l'obesità: nessuno sa cosa sia. Esistono evidenze di una impronta genetica, relazioni con la fauna batterica personale, interruttori proteici nel nostro sistema nervoso (che spingono alle dipendenze) e poi, sì, anche un modello sociale disfunzionale che si intreccia con la ricompensa chimica del piacere alimentare. Ognuno di noi può essere portatore di uno o più di questi ed altri fattori. 

Non solo dunque non è una malattia ma è una condizione la cui complessità è la complessità della nostra identità. L'obeso è obeso fuori e dentro ed è destinato a rimanerlo fino a quando la sua identità coinciderà con la sua obesità. Stanti chimica e genetica contrarie, l'obeso che perde peso è un individuo che ad un certo punto della sua vita matura una diversa identità. Non si tratta di volontà ma di vita.

Chi fa una dieta, e dopo anni finalmente anche i media italiani iniziano ad accorgersene, entro due anni dalla perdita di peso riacquisisce tutti i chili persi e spesso ne aggiunge altri: non è un luogo comune, riguarda l'85% di chi si mette a dieta.
Le ragioni per cui ciò accade sono molteplici ma il grosso sta nell'identità e nella sua complessità. Non basta perdere chili per maturare una nuova identità.

Chi ama la persona obesa ne può vedere le difficoltà e soffrire dei suoi problemi, ma la parte più difficile è accettare una scelta identitaria che non possiamo capire, perché l'identità è una complessità che sfugge persino al suo portatore, che tocca il rapporto con se stessi, con l'intimità e la sessualità, col caldo e col freddo, con gli altri ecc. 
L'obeso può non voler essere obeso ma incarna una identità che tra le molte altre cose è anche obesa.

Che fare?
L'approccio HAES, quello più evoluto e che anni fa ho voluto raccontare su questo blog, punta a rimuovere per quanto possibile le pressioni sociali dalla psicologia formativa dell'identità, perché attribuisce una buona fetta della voracità ad una reazione sociale. Risolte le pressioni sociali ne consegue una ritrovata attività fisica e un più equilibrato rapporto col mondo e quindi anche col cibo.
Ma questa "soluzione" vale solo per alcuni individui. Ci sono persone - e forse anche il tuo amico da come ne parli - che sono fondamentalmente in pace con se stesse ma non per questo son meno voraci, che magari persino amano la ciccia ("grasso è brutto" è per fortuna un mantra non universale): nel loro caso le diete non possono funzionare e l approccio HAES è pressoché inutile.

Cosa rimane?
Rimane l'ampio spazio delle scelte individuali, che comprendono - e può non piacerci a noi che amiamo gli altri - anche scelte identitarie insalubri. Vista la temporalità dell'esistenza e la complessità di cui parlavo, elementi che riguardano tutti e non solo i ciccioni, sono scelte che dall'esterno possiamo solo rispettare. Di obesi anziani ce ne sono pochi e noi ciccioni lo sappiamo benissimo (mediamente un obeso ha una aspettativa di vita di 12-15 anni inferiore ai normopeso), che qualcuno ce lo ricordi è una sorta di ossessione contemporanea, ci è davvero difficile non giudicare il prossimo (che equivale al dire: "non posso conoscere la tua complessità ma la giudico lo stesso", un approccio da capre molto diffuso).

A volte noi cicci dimagriamo in modo traumatico dinanzi ad una qualche patologia che ci costringe a semplificare quella complessità ma di rado usciamo felici risolti o sani da quella trasformazione, a volte rischiamo persino di perderci per lo scollamento tra nuovo stato fisico e identità. Prova a parlare con supercicci che hanno perso peso con la chirurgia (quelli che non ci muoiono, almeno), scoprirai che si tratta spesso di individui che non sanno più bene cosa sono ed è quello che accadrebbe se esistesse un pillolone capace di trasformare tutti in normopeso. La parte più evidente dell'obesità, la forma fisica, non è detto che sia quella più significativa.

Come persona che tiene ad un individuo ciccione (che non è una parolaccia né un insulto se viene dal cuore) so anch'io quanto è facile struggersi, eppure c'è pochissimo che si possa fare dall'esterno.
Non esiste la soluzione all'obesità per il semplice fatto che non è una malattia ma una condizione, come nascere coi capelli biondi o rossi. L'individuo ha la possibilità di contrastare le difficoltà con l'esercizio fisico (io mi son trasferito in campagna anche per quello, per dire), di approvvigionarsi di cibo più sano, di cercare altri piaceri per diluire il focus sul cibo. Dall'esterno potremmo auspicare questa scelta, potremmo persino desiderarla, ma in fin dei conti non possiamo farla nostra perché è sua.

Il pillolone non esiste
Insomma A.S. vorrei avere un pillolone per aiutare il tuo amico - questo blog è nato dalla tenerezza e amore profondo che provo per noi incompresi ciccioni - ma, anche esistesse, nella stragrande maggioranza dei casi non sarebbe utile o potrebbe rivelarsi deleterio.
Se vorrà può tentare, comunque, l'approccio nutrizionistico corredato da supporto psicologico: queste due cose insieme sono sempre più spesso uno standard nei centri obesità. Se chiedi alla Asl del tuo amico sicuramente ti sapranno indicare il "centro obesità" di riferimento. Possiamo solo sperare, se il tuo amico ci andrà, che questo approccio più ampio e complesso non si risolva nell'ennesima delusione.

Qualche piccolo aiuto, infine, può arrivare dalla psicoterapia comportamentale che spesso riesce a dare all'obeso il controllo contro le abbuffate (magari non fa dimagrire ma chi soffre di attacchi di fame insanabili può riuscire ad evitarli). Ci sono psicologi comportamentali molto bravi, col vantaggio che spesso sono terapie che richiedono poche sedute.

Un caro saluto,

Paolo

chiunque volesse scrivermi può sempre farlo a questo indirizzo, sono sempre felice di rispondere per quel poco che posso offrire.

lunedì 17 marzo 2014

Come ti uccido una cicciona

Quando la cicciofobia si somma ad un disordine alimentare il mix è esplosivo. A rischio, dice la ricerca, una donna su cinque

Sì, è vero, la cicciofobia colpisce anche gli uomini, così come i disordini alimentari. Ma la vera emergenza, dicono gli esperti della convention annuale statunitense sui disturbi dell'alimentazione, riguarda le donne. E la situazione peggiora: si considera oggi che una donna su cinque soffra di questo genere di problema.

Come sottolinea Erin McKelle in un editoriale molto citato in questi giorni, ci sono due cose che sono molto pericolose per le donne dalle ponderalità rilevanti. La prima è la cicciofobia in tutte le sue declinazioni, di cui parliamo spesso su queste pagine, l'altra è il disordine alimentare. Quando queste due cose vengono vissute contestualmente, i problemi per il benessere e gli ostacoli al recupero si moltiplicano. In realtà si corre il rischio, col tempo, di lasciarci la pelle.

Se a questo si somma la cosiddetta emergenza dietismo, considerata sempre più spesso fonte di disordini alimentari, il quadro del pericolo diventa chiaro. Scrivono gli esperti di HOPE: "depurativi in succo, pillole dietologiche, supplementi per l'accelerazione metabolica, liste di cibi buoni e cibi cattivi... Saltare sul carro di una dieta che va di moda è spesso la via più breve a sviluppare abitudini alimentari tossiche e disordini alimentari. Quello che inizia spesso con un tentativo apparentemente innocente di perdere qualche chilo o di guadagnarci un po' in salute può facilmente diventare un disordine a tutto tondo, come anoressia, bulimia o alimentazione compulsiva".

Siamo ad un crocevia dove convergono difficoltà di tipo diverse e caratteristiche identitarie diverse e da dove si dipartono strade tutte in salita. Il nemico numero uno, continua McKelle, sono i media, veri propagatori dell'ossessione per la magrezza ma, come sottolineano esperti come Brian Cuban, il drammatico comportamento asociale dei media non basta a spiegare la cicciofobia. Ma è proprio questa, declinata contro le donne in effetti discriminatori, paternalistici o bullisti tout-court, la polvere da sparo che carica le armi con cui la società prima assedia milioni di donne e poi assolda i cecchini per farle fuori.

La vera novità della ricerca, come evidenzia McKelle, è che tutti questi effetti sono collegati tra di loro: l'esposizione all'ossessione per la magrezza, che colpisce le donne in carne più delle altre, l'ostracizzazione dei grassi, i messaggi mediatici... Non solo tutti gli elementi dell'ossessione sociale lavorano insieme per danneggiare la donna, sono ognuno causa ed effetto dell'altro, una complessità fatta di odio, identità danneggiate, media fallaci e dietismi sballati.

Come uscirne?
Non esiste una via comoda, facile e sicura per sottrarsi al martellamento e all'assedio. Ma, come suggerisce McKelle, si possono attuare alcune strategie di buon senso per "alleviare" il problema ed evitare spirali distruttive e autodistruttive.
In una battaglia di campo l'assedio può provocare l'esaurimento delle risorse dell'assediato. Nel nostro caso, scrive McKelle, si può però tentare di svicolare da chi con il solito paternalismo ritiene di dover sempre indicare alla ciccia di turno cosa deve fare della propria vita. E se non si può svicolare, perché chi lo fa è una persona di famiglia o qualcuno a cui si tiene, si può comunuque decidere di parlare, spiegarsi, far capire che parlare in termini colpevolizzanti o ridondanti di luoghi comuni non solo fa male al rapporto che si ha con quella persona, ma ottiene l'effetto contrario a quello sperato.

Per quanto riguarda i media, invece, l'unica è armarsi di senso critico, di consapevolezza: oggi è difficile, impossibile probabilmente, pensare di vivere al di fuori dell'assedio mediatico. La comunicazione imperniata sulla magrezza come unico parametro del successo è ossessiva. L'unico modo per non subirla, per non interorizzare una colpa o il senso di essere "sbagliati", è destrutturarla, capire quali sono le origini culturali di un'ossessione del genere, verificare quanto quella non abbia nulla a che fare con la questione salute ma esclusivamente con la vanità o con il business che si incardina su tale ossessione.










venerdì 14 marzo 2014

L'obesità non è un disturbo alimentare

Ci sono cose che diamo per scontate e che ci sembrano lampanti. Ma non sempre lo sono, e ci impediscono di ragionare. Risolviamone una, di quelle che girano da tanto tempo




"Obesitá e anoressia sono entrambe malattie gravi! quelle capre su fb dovrebbero smetterla con quelle immagini moraliste"

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in questo colorito tweet mentre pattugliavo i social network per accertarmi di ristabilire la verità assoluta sull'obesità... Si scherza, ovviamente! Ma trovo che questa battuta sia utilissima per spiegarci o ricordarci un paio di fatti fondamentali. Ed è utile ancor di più, forse, perché dimostra come una certa confusione regni anche in chi combatte la discriminazione, caos dovuto alla comunicazione fallace e distorta che regna sovrana nel nostro paese.

Il primo riguarda i disturbi alimentari. Una locuzione che comprende una quantità di diverse patologie, di comportamenti e di ambienti psicologici, un insieme che è tuttora oggetto di studi approfonditi in tutto il mondo e del quale grazie al lavoro di molti diversi ricercatori piano piano si inizia ad avere un quadro.

Il secondo è che l'obesità non è un disturbo alimentare, l'anoressia invece sì. Lo stato di obesità, al di là della difficoltà tecnica di definirlo dopo la caduta del BMI come "termometro" valido, è una condizione identitaria. E' il risultato di una molteplicità di fattori, che i dietisti chiamano cause, un fin qui inestricabile mix di elementi genetici, culturali (familiari e ambientali) e psicologici. Un insieme sul quale tutti sembrano avere opinioni molto precise ma che ogni giorno cambia forma per una nuova scoperta. Di fatto dell'obesità sappiamo molto, ma per dire che la conosciamo ci vorranno ancora molti anni. Uno stato identitario, che sia o meno un fattore di rischio, non è una patologia.

Concludendo, se è vero che la definizione di disturbo alimentare integra probabilmente troppe diverse patologie e comportamenti e che questo nuoce alla chiarezza, se vogliamo capire di cosa parliamo quando parliamo di cicciosità è essenziale far nostra la differenza tra patologia e stato. Non mancano, ahinoi, articoli di giornale o di pseudodietisti che parlano dell'obesità come patologia, come fosse un'influenza, una trombosi o peggio. Che sia uno stato di interesse clinico è indubbio. Ma ripetere come un mantra che sia una patologia non diventa vero solo perché - appunto - ripetuto di continuo.

(fonte foto)

giovedì 13 marzo 2014

Voler convertire un bullo è come voler imbottigliare il vento?

La diffusione dell'odio e del pregiudizio contro chi è ciccione è tale che la guerra forse è già perduta. Ma se non fosse quella la guerra da combattere?



CCD - Si può fermare un'onda di piena? Si può imbottigliare il vento? Si può trasformare un bullo in una persona consapevole degli altri? Se lo chiedono in tanti in questi giorni sui network adiposi, e non perché si siano registrati episodi di bullismo più cruenti del solito, ma proprio perché è un lento stillicidio quello che cicci e cicce di ogni età affrontano quotidianamente.

Qualche giorno fa Susie Kline cercava di spiegare ai genitori americani perché avere dei figli ciccioni non debba suscitare loro sensi di colpa. "Tutto quello che potete fare è educare, fornire cibo salutare, ma il resto è la genetica, l'ambiente, le questioni economiche... Queste ed altre cose che noi tutti vorremmo poter controllare molto più di quanto in realtà ci sia dato".

Susie descrive la complessità non solo dell'obesità in sé ma anche dell'intero mondo che circonda il bimbo ciccione, auspicando infine che genitori e tutori riescano prima o poi a far quadrato e ad affrontare la sfida più grande, che non è certo solo quella di fornire cibo sano ma quella di cambiare la cultura e azzerare il bullismo. Insieme, dice Susie, si possono ottenere grandi risultati.

A me, come accennavo, sembra che il bullismo anticicci sia talmente incardinato nelle fondamenta della società contemporanea che pensare di cancellarlo sia utopico, sia appunto come voler imbottigliare il vento.

E se ci fosse un modo per imbottigliarlo, invece, il vento?
Si legge su Living400Libs di una ragazza obesa a cena con amici fuori, in un ristorante, e del dover ascoltare per metà del pasto quelli del tavolo accanto sparare a zero sui ciccioni. "Nel microcosmo di quell'ora e di quella stanza, i loro commenti - scrive l'autrice del post - non dovevano necessariamente avere effetti su di me. Le loro opinioni non mi hanno fatto perdere il lavoro o la mia casa. Il fatto che pensino che le persone grasse non siano sexy non cambiava quello che era successo poco prima del pranzo tra me e il mio ragazzo. Ma, allo stesso tempo, le opinioni anti-obesi espresse da quel gruppetto di persone rafforzano la visione sociale dell'odio contro i ciccioni. L'idea che chiunque possa perdere peso, che i ciccioni siano stupidi o non si accettino o siano pigri in quanto non magri, fa sì che una persona con le mie qualifiche sia assunta con maggiori difficoltà. O pagata meno di un collega di pari qualifica. E' anche uno dei motivi per cui molti medici vedono i cicci come pazienti che non seguono le loro direttive, o deficienti perché per propria volontà evitano la magrezza, e via dicendo".

Ecco, forse, il fronte. Dove possiamo tracciare una linea?
I danni del bullismo, dell'odio, dell'ignoranza, della mancata comunicazione della realtà delle cose così come del suo opposto, lo scarso interesse che suscita il benessere degli altri, i danni dicevo sono molto più grandi tanto più giovani ci si espone a questo clima. Ma poi proseguono lungo tutta la vita adulta.

Che importanza può avere quando qualcuno parla in un certo modo dei ciccioni, come quei ragazzi in quel ristorante? A livello individuale non ne ha nessuna, probabilmente. Ma quei pregiudizi, quei luoghi comuni, quell'odio che si rafforzava tra di loro durante un pasto contribuiva alla visione dei ciccioni da parte della società nel suo complesso, era ad un tempo causa ed effetto dell'accondiscendenza generale verso il tiro al ciccione.

Ecco, quindi, che forse siamo arrivati al punto. Il bullo che assale una donna cicciona o un cameriere che ti guarda storto, beh contro questo si può davvero far poco. Pensare di "convertire" ad un livello di umana decenza e consapevolezza chi annega nella discriminazione sarebbe veramente come tentare di infilare il vento in bottiglia. Ma, come auspicava Susie, è invece possibile agire, tutti insieme, perché cambi la "visione complessiva" della società, quella che - a differenza delle parole di uno sconosciuto - già oggi causa così tante sofferenze. Come a dire, quindi, che il vento da imbottigliare non sono i pregiudizi di un estraneo, il vento è la corrente d'aria mefitica che si insinua nelle istituzioni, nei palazzi, nelle scuole, nei condomini, nelle televisioni. Forse è vero, non si può imbottigliare, ma si possono sempre chiudere le finestre e poi parlare, qui, sui social network, per strada, tra gli amici, del perché si è scelto di risparmiarsi quello spiffero assassino.

(fonte foto)

martedì 11 marzo 2014

Il nutrizionista: l'obesità è perlopiù determinata dall'ambiente

L'intervista a Francesco Iarrera, nutrizionista ed esponente di AIDAP, tra i primi professionisti del settore in Italia a porre al centro della questione obesità l'ambiente sociale e la discriminazione

CCD - La discriminazione entra di prepotenza nel dibattito sull'obesità, grazie in particolare al dott. Francesco Iarrera, nutrizionista del Centro di Riabilitazione Nutrizionale di Messina e referente regionale di AIDAP, l'Associazione Italiana Disturbi dell'Alimentazione e del Peso. Iarrera in queste settimane ha letteralmente rotto il ghiaccio grazie ad un brillante intervento sulla discriminazione apparso sulla newsletter di AIDAP, Emozioni e Cibo. Com'è ovvio gli ho immediatamente chiesto di parlarne per una intervista e ne è uscita una lunga e interessante chiacchierata a 360 gradi su obesità, disturbi alimentari, odio sociale, reality show e nutrizione. Ho cercato di sintetizzarla qui sotto.

Discriminazione e disturbi alimentari
Perché nel tuo intervento parli di "nuovi pregiudizi" anticicci, a cosa fai riferimento?
Iarrera: Quando parliamo di obesità, quando parliamo di obesi, ci troviamo di fronte ad una sorta di intolleranza razziale, una forma molto pericolosa di intolleranza. Non ci dobbiamo stupire: ogni qual volta come società e individui ci troviamo dinanzi a qualcosa che non conosciamo tendiamo a starne alla larga, e finiamo per considerarlo il male supremo.
Qui da noi questo è quello che accade. Oggi succede proprio questo con l'obesità.

Sono i pregiudizi che circondano l'obesità, e che si traducono nell'esclusione sociale degli obesi, parliamo di quelli?
Iarrera: Si attribuisce di tutto e di più agli obesi. Si dice che sono pigri, ad esempio, ma si può essere pigri o meno anche da magri. Si dice che gli obesi sono privi di volontà o non sanno mantenere un impegno. Sciocchezze, ovviamente, che sono però un problema nel momento in cui diventano il modo o la scusa per discriminare, allontanare, emarginare.

In che senso?
Iarrera: Questo è un problema culturale, nasce dalla non completa conoscenza dei meccanismi biologici e psicologici legati al sovrappeso. Si ignorano le cause scientificamente dimostrate, si attribuisce il sovrappeso ad una insufficienza dell'individuo.

E non è così? C'è chi attacca gli obesi perché - dice - lo sono per scelta.
Iarrera: Il problema è proprio questo. Come si può parlare di sovrappeso continuando ad ignorare che se il 25 per cento della questione è ascrivibile ad una responsabilità personale, il 75 per cento ha invece cause ambientali?

Come uomo ciccione sono cresciuto circondato da chi non solo mi diceva che vivevo in un corpo sbagliato ma anche che era tutta colpa mia. E se non me lo diceva mi faceva capire come la pensava. Un'esperienza, questa sì, epidemica, vista la quantità di cicci e cicce che l'hanno sperimentata e la sperimentano. Ora mi vieni a dire che non è così?
Iarrera: Le persone obese si trovano in una difficoltà biologica. Vivono una condizione che conoscono meglio di tutti, non hanno certo bisogno che siamo noi ad andarglielo a dire. Nel momento in cui la persona si sente colpevolizzata rispetto al proprio sovrappeso tende a fuggire. Paradossalmente l'accusa secondo cui l'obesità viene scelta non solo non aiuta a risolvere il problema ma, anzi, lo aggrava.

Sì, come sottolinei la ricerca va tutta in questa direzione, anche se viene ancora sostanzialmente ignorata, si fatica a trasformare questo concetto in cultura. Dal mio punto di vista posso dire che da adulto ho imparato, diciamo così, a difendermi. Certo, se ricordo quando ero piccolo...
Iarrera: Per i bambini è naturalmente molto peggio. Nel bambino la questione è potenzialmente ancor più grave. Perché se gli va bene non affronterà proprio il problema, se gli va male finirà per sviluppare un disturbo dell'alimentazione.

Quindi vedi una correlazione tra un clima sociale ostile e lo sviluppo di disordini alimentari?
Iarrera: Anoressia, bulimia, un approccio disturbato al cibo. Tutto questo arriva dall'ambiente, ancor più al bambino la cui identità ancora non è formata, la cui autostima è ancora in fase di evoluzione.

Mi puoi fare qualche esempio?
Iarrera: Nella nostra pratica clinica incontriamo molti bambini in cui rileviamo il ruolo dell'emarginazione, la percezione dell'esclusione è forte e li segna. Basti pensare che i bambini normopeso tendono a giocare meno con i bambini sovrappeso.

L'importanza dell'ambiente
A questo proposito ci sono ricerche, correggimi se sbaglio, secondo cui è deleterio far mescolare i bambini normoforma con quelli ciccioni perché tenderebbero a diventare ciccioni... Che ne pensi? A me sembra orrorifico il solo pensiero, ma io come ti ho detto lavoro su ciò che conosco, ossia la comunicazione sociale. In questo caso l'esclusione a causa della forma mi fa venire i capelli dritti.
Iarrera: La verità è che l'interazione sociale va in entrambe le direzioni. Se è vero che una persona magra che si circonda di persone sovrappeso rischia di sviluppare del sovrappeso, è anche vero il contrario.

Allora possiamo dire che ci condizioniamo a vicenda un po' in tutte le cose e che questo fa parte dell'interagire, che a sua volta è condizione essenziale di vita...
Iarrera: Ma il punto chiave, il vero nodo, è ancora una volta un altro, ed è l'ambiente.

Al contrario di altri medici, attribuisci moltissima importanza all'ambiente. Ne hai scritto e me ne hai parlato anche ora come di un elemento determinante. Quando parli di ambiente cosa intendi?
Iarrera: Se penso ai bambini, alle famiglie, ai compagni di giochi, ma anche - con gli adulti - ai colleghi e agli amici. A come gli uni si comportano con gli altri, come ci si relaziona, penso ai luoghi comuni, alla frequente ignoranza della scienza...

Io da esperto di comunicazione tendo a pensare molto all'ambiente mediatico, a quanto influiscano i media, come la televisione. Mi chiedo se possiamo ridere su fenomeni come quelli dei reality show antiobesi o se invece dovremmo investigarli seriamente
Iarrera: Non ci possiamo ridere sopra. L'ambiente mediatico di questo tipo è di una gravità assoluta. Se ci ragioni, è una esaltazione dei concetti di cui abbiamo parlato, dell'ambiente ostile, con l'aggiunta di una diseducazione molto grave.

Che intendi?
Iarrera: L'esempio più ovvio è proprio quello della forma. Si continua a enfatizzare il fattore di successo della magrezza, come se fosse la via al successo, anzi l'unica possibilità di successo personale, e questo naturalmente è problematico.
A questo si aggiunge l'idea della possibilità di perdita di peso con sistemi che sono al limite del realizzabile.

In che senso?
Iarrera: Pensiamo proprio ai reality show di cui parlavi. Non è ovviamente in alcun modo realistico che una persona non so vada in una clinica come quella del reality show dove un esercito di terapisti lo/la seguono giorno per giorno magari per un anno e mezzo. Ma il messaggio non è questo, il messaggio fa sì che chi segue quelle trasmissioni finisca per pensare di poter tradurre quel dimagrimento in una realtà anche per sé. La verità è che non si vive la vita con un tutor o seguiti da un pool di specialisti in una clinica.

Come esperto di comunicazione mi sento solo di aggiungere che questo genere di show mi sembrano deleteri non solo per il pubblico ciccione, che viene istigato a tentare di dimagrire in modi suicidi. Ma anche per quello normoforma: in questi show trovano conferma una quantità di luoghi comuni, pregiudizi, ossessioni che vengono ripetuti sotto varie forme e continuamente, dipinti sia negli atteggiamenti dei conduttori che in quelli a cui sono spinti i partecipanti.
Tra questi pregiudizi, evidentemente, c'è anche quello di chi ritiene fondamentalmente giusto che il ciccio o la ciccia si sentano abitanti di un corpo sbagliato. Molti ritengono che questo sia utile, addirittura che li spinga a dimagire, tanto da sentirsi legittimati a dire all'obeso quello che deve fare con il proprio corpo. E si arrabbiano persino quando qualcuno dice loro che si comportano da bulli. Che ne pensi?

Iarrera: Questo viene fuori di continuo. E' come se qualcuno potesse sapere meglio della persona sovrappeso che essere sovrappeso è un problema. Se io ho un peso di 150 chili saprò da solo che faccio fatica a salire le scale. Non ha senso fargli pesare una cosa che lui sa perfettamemte.
E' il modello del senso di colpa che è fallimentare e che incredibilmente ancora oggi viene utilizzato. Il sovrappeso di fatto è aggravato da questo genere di approccio che, come tutti quelli di questo tipo, non sono funzionali.
Parliamoci chiaro: ma se io ho malditesta siamo sicuri che debba esserci qualcuno che mi spiega che ho il malditesta? E magari insultiamo quella persona?

Il caos ascientifico, il fascino dei "maghi"
La mia sensazione è che viviamo in un momento molto caotico per tutto quello che riguarda l'alimentazione, le diversità, una cultura sofferente. Non percepiamo il valore dell'individuo. Anche quando si parla di nutrizione mi pare che vi sia molta confusione e questo anche determina comportamenti discriminanti. Come leggi la situazione attuale?
Iarrera: In cinquant'anni anni siamo passati dallo spingere un carretto ad andare in aereo, oggi usiamo i cibi precotti che acquistiamo al supermercato e non quelli che coltiviamo nel nostro orto. E' cambiato tutto l'ambiente.
Pensiamo alla dieta mediterranea. Quando si parla di questa dieta in realtà si dovrebbe specificare che si parla di uno stile mediterraneo vecchio di cinquant'anni. Quando l'uomo si alzava la mattina alle 5 per andare a lavorare nei campi. Lo stile di vita oggi è cambiato completamente.
Il punto è che non siamo geneticamente pronti per vivere in questo ambiente. L'ingrassamento è una logica conseguenza. L'uomo fino a non più di cento anni fa era stato costruito per accumulare risorse energetiche che gli consentissero di resistere alle carestie. I cambiamenti dal punto di vista genetico non sono affatto affrontabili facilmente.

Mi chiedo se non possa venirci un aiuto dalla cultura. Come mi hai detto negli ultimi decenni è cambiato tutto. Se non ce la facciamo sotto il profilo genetico forse potremmo lavorare sotto il piano culturale. Penso a chi inizia, forse siamo solo agli inizi, a riflettere in modo nuovo sul cibo. Con tutti i suoi limiti, non so, penso al vegeterianesimo, non è un indice di una riflessione nuova sull'alimentazione? C'è da sperare che da queste riflessioni emerga un approccio più evoluto?
Iarrera: Certo, un aspetto importante è quello culturale, una evoluzione in questo quadro potrebbe cambiare qualcosa e forse qualcosa sta cambiando. Ma la domanda rimane: stiamo prendendo la giusta direzione? Io non lo so. La ricerca scientifica in questo senso non è univoca, ci sono nodi controversi sulla riduzione di certi alimenti a favore di altri, ci sono pazienti che sviluppano disturbi in relazione all'alimentazione "politically correct". In una evoluzione del genere, diciamo, c'è una sottile linea di confine tra miglioramento e peggioramento.

Mi sembra che giriamo nel caos. A volte la sensazione da questa parte del tavolo è che le ricette per star bene o addirittura per dimagrire cambino diametralmente a seconda del medico con cui parli. Conosco persone che seguono diete che hanno letto sui libri, altre stabilite da nutrizionisti, altre ancora quelle di certi medici di famiglia che lavorano fuori protocollo. Se poi ci parli, scopri che le indicazioni cliniche delle une e delle altre fanno a botte, sono quasi in opposizione. Siamo nel caos, insomma.
Iarrera: Credo che il problema nasca dalla difficoltà di far emergere l'approccio scientifico. Alcuni terapeuti in ambito nutrizionale sembrano a volte trascurarlo, finiscono per cercare la genialità in un approccio che se basato sulla scienza medica non dovrebbe avere nulla di geniale.

I venditori di elisir in Italia hanno sempre avuto vita facile...
Iarrera: Io credo che un medico, un nutrizionista, non debba inventarsi nulla, deve solo applicare quello che la ricerca scientifica ha portato in superficie.

Mettendoti nei panni di un paziente, di qualcuno che ha davvero dei problemi di salute legati alla nutrizione... Come se ne esce?
Iarrera: Bisogna leggere. Leggere tanto, studiare, capire. E' complicato, mi rendo conto. Per esempio noi qui al nostro centro applichiamo la terapia comportamentale per le persone sovrappeso e i disturbi dell'alimentazione. Parliamo dell'applicazione del massimo dell'evidenza scientifica. Dovrebbe quindi essere questo lo standard dell'approccio all'intera questione. Ma - sorpresa - gli specialisti che la applicano sono pochi.

Come formare gli specialisti? Come ri-disegnare l'ambiente specialistico?
Iarrera: Noi proponiamo dei corsi di formazione su queste terapie, ma posso dirti che ai nostri corsi troviamo meno partecipanti di quanti si iscrivono, ad esempio, per studiare la dieta chetogenica (una dieta che va molto di moda, ndr.). Se vai però a leggere la ricerca, a studiare, scopri che molti studi non convalidano quel tipo di dieta. Siamo quindi di fronte ad un messaggio sbagliato.

Ho il timore che intervengano logiche di business...
Iarrera: Certo. Qui c'è un business che va ad invadere il campo scientifico, l'approccio miracolistico fa guadagnare molto di più. Non è la prima volta. E' successo anche con le intolleranze alimentari. Nel momento in cui sono emerse le evidenze scientifiche sulla inattendibilità di queste analisi un medico serio non può più proporle. Come AIDAP abbiamo un codice deontologico molto chiaro in questo senso. Ma penso anche al sondino nasogastrico, col quale qualcuno si è arricchito molto.
Il punto è che usare tecniche errate produce un doppio rischio, quello legato alla salute e quello della depressione dinanzi al fallimento.

Quando penso alla "lentezza culturale" penso anche ai grandi disagi che gli obesi, in particolare i grandi obesi, soffrono nel contatto con le strutture pubbliche, di trasporto o sanitarie. Che ne pensi?
Iarrera: Credo che questo sia legato ad una scarsa reattività all'evoluzione delle cose. Il mondo è cambiato rapidamente, e c'è una difficoltà, una lentezza nel trovare soluzioni a problemi vecchi di cent'anni, figuriamoci per quelli vecchi di vent'anni. Forse è un po' troppo ambizioso sperare che le strutture si adeguino rapidamente ad una condizione reale e molto nuova.

Amare se stessi e Health At Every Size
L'approccio di questo blog come sai è legato ad HAES, un approccio che partendo dall'accettazione di sé propone un percorso di salute legato alla gioia del ritrovare il senso del movimento fisico e di una nutrizione sana. Il primo passo per riguadagnare salute è accettare quello che siamo. Che ne pensi?
Iarrera: Il discorso è veramente complesso. Il sovrappeso oggi ha delle influenze a diversi livelli, di relazioni sociali, reazioni emotive, di autostima, aspetti che vengono influenzati negativamente dal sovrappeso. Non possiamo dimenticare che è un problema di salute, dovrei puntare a star bene e non a dimagrire, certo, ma non ho idea di cosa si possa fare per questo.

Non pensi sia possibile?
Iarrera: Intendo dire che il nostro percorso parte dal discorso dell'accettazione corporea, in modo che il paziente impari che può vivere dignitosamente con i propri chili di troppo. Il problema è lo scopo che spinge il paziente da noi.

Che intendi?
Iarrera: Non sono molti quelli che mettono al centro la salute. Molte persone si avvicinano ad un protocollo di terapia come il nostro perché vogliono perdere peso con obiettivi primari dichiarati, ad esempio per trovare fidanzati o fidanzate, per riuscire meglio nel proprio lavoro o per trovare una occupazione. Noi ci troviamo quindi a lavorare per tentare di ristrutturare questi pensieri, perché si arrivi alla conclusione che non è così, che si può avere una relazione affettiva anche se si è in sovrappeso, che ci si può sposare e avere successo nel lavoro; così come tutto questo può non accadere, anche se si è magri.
Qui ci scontriamo con una pressione culturale e ambientale che oggi è ossessiva.

Sì, ne sono consapevole. Anche per chi come me lavora specificamente sul linguaggio e individua in questa ossessione il principale ostacolo al benessere, alla fine ci si trova sempre a parlare di dimagrimento. Il che è deprimente, considerando appunto quello che dicevamo su salute e ricerca scientifica.
Iarrera: L'idea che si fanno i pazienti è che devono perdere peso, che quello per loro è l'unico sistema per star bene. Si innescano comportamenti deleteri, come il controllo ossessivo di alcune parti del corpo, ad esempio i fianchi. E si crea un circolo vizioso che finisce con evitare le attività. E quindi non vado al mare perché sono sovrappeso, innestando ulteriori negatività.

Come si può superare?
Iarrera: In verità l'insoddisfazione corporea si può affrontare con esercizi comportamentali. Ad esempio forzandosi ad aandare comunque al mare e scoprire quello che in realtà si sente. Gli esercizi condotti a dovere migliorando la soddisfazione, la percezione di sé. Ma quando il costrutto psicologico è legato anche alla giovane età i condizionamenti sono troppo forti per lavorare su questo fronte.


lunedì 10 marzo 2014

Io rimarrò sempre un po' grassa

Una riflessione di Shaunta Grimes sulla perdita di peso. E sul perché le strade abbandonate è meglio non tornare a percorrerle



Via la bilancia, via con la gioia. Fuori l'odio, dentro il piacere. Sì ad un'alimentazione corretta, no alla privazione alimentare. Shaunta Grimes, scrittrice e tra le più argute attiviste del movimento internazionale per la libertà ponderale nonché alfiere dell'approccio HAES, ha scritto un piccolo post sulle proprie scelte di vita, comprese quelle alimentari. Un po' per ricordarlo a se stessa, cosa molto utile quando si lavora con HAES, un po' per ricordare a tutti che un'altra via è possibile. Eccolo in una veloce traduzione:

"Questa citazione mi ha davvero fatto pensare:
Sì, posso farcela a perdere quei 7 chili così da infilarmi molto più comodamente il vestito di Bébé che ho comprato mesi fa. Ma se devo farlo non mangiando più frutta, o pane appena sfornato, o yogurt greco, o miele, per un anno, allora, beh, continuerò a pesare 7 chili più di quanto si supponga che debba pesare
Ora, d'accordo, il mio corpo è assai più imponente di chi ha scritto questa citazione. Ma ok. Trovo molto interessante quello che ha scritto. E' qualcosa con cui mi trovo spesso a dover fare i conti, in quanto appartengo ad un mondo dove molti di coloro che conosco stanno facendo qualche forma di dieta basata sulla privazione.

Il punto è che non sono disponibile a passare il resto della mia vita senza mangiare dolci al cioccolato perché devo scendere ancora quel chilo, o della pizza fatta in casa o del popcorn in una serata cinematografica in famiglia. Non ho intenzione di smettere di mangiare pane, banane o cibo messicano.

Sono invece molto determinata nel continuare a lavorare per costruire una relazione sana con il cibo.

Per me c'è una grossa differenza tra l'avere due dolcetti al cioccolato quando sono ad un giro di boa e mangiare invece tutti quelli contenuti in una confezione, per spaventarmi poi perché A) Il mio corpo non risponde bene all'introitare tutti quelli zuccheri in una volta sola B) Sono sommersa dal senso di colpa per non avere forza di volontà.

E' la differenza tra mangiare un paio di pezzi di pizza e una ciotola di popcorn quando la mia famiglia decide che è il momento di una maratona Ghostbusters, e poi mangiare metà pizza tutta da sola e giurare dopo che mai più mangerò pizza (bugia).

Io sono quasi certa che oggi il mio corpo non è al suo giusto peso, sempre che esista una cosa di questo tipo (penso in effetti che esista, ma non è questo il punto), e so che se continuo a nuotare e mangiare cibo il mio corpo continuerà a diventare più forte e più in forma, più in salute e, già, anche più magro (vi ricorda qualcosa? ndr.).

Ma non ho alcuna intenzione di tornare indietro a quando dimagrire era il mio obiettivo. Non sono disposta a smettere di mangiare con piacere e senza sensi di colpa e in quantità che mi diano soddisfazione e con cui io mi senta confortevole, in modo dare al mio corpo il modo di vivere la mia vita".

(fonte foto)